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La responsabilità delle persone giuridiche ai sensi del d.lgs 231/2001: natura giuridica e criteri di imputazione, con particolare riguardo ai reati colposi-presupposti.


Premessa storica, definizione e collocazione sistematica

Per lungo tempo oggetto di dibattito, la responsabilità delle persone giuridiche è attualmente regolata da un’apposita disciplina normativa. Per affrontare il controverso tema è innanzitutto necessario ripercorrere brevemente la genesi dell’intervento legislativo in materia.

In attuazione della delega contenuta nell’art. 11 della legge n. 300 del 29 settembre del 2000, il d.lgs n. 231/2001 ha introdotto una inedita forma di responsabilità da reato degli enti, segnando una svolta radicale rispetto ad una tradizione culturale, ancor prima che dottrinale, che considerava la persona fisica quale unico destinatario della sanzione punitiva.

Dando esecuzione, tra l’altro, alle direttive contenute nell’art. 2 della Convenzione O.C.S.E. sulla lotta alla corruzione, stipulata a Parigi il 17 dicembre 1997, i testi normativi menzionati hanno per la prima volta configurato la diretta responsabilità degli enti collettivi per i reati consumati nel loro interesse o vantaggio dalle persone fisiche che agli enti medesimi sono legati da un rapporto funzionale. Sebbene da molto tempo ormai, e indipendentemente dalle sollecitazioni provenienti dagli obblighi assunti dall’Italia in ambito internazionale, si registrasse, in risposta al crescente fenomeno della criminalità d’impresa, un ampio consenso sulla necessità di prevedere forme di responsabilità per le persone giuridiche che delinquono, il pur vetusto dogma secondo cui societas delinquere non potest tardava a dissolversi. Non è quindi in dubbio che l’esigenza di omogeneizzazione dell’ordinamento interno a

quello degli altri partners europei abbia svolto una funzione trainante nel processo motivazionale del legislatore, accelerando l’introduzione di modelli punitivi destinati ad affiancarsi a quelli tradizionalmente destinati alle persone fisiche.
Soltanto a seguito di un lungo percorso interpretativo la posizione che vuole le persone giuridiche titolari di capacità penale è riuscita ad affermarsi anche in Italia. Sulla tradizionale impostazione di chiara matrice giusnaturalistica che classifica l’ente collettivo come centro autonomo di imputazione di diritti una mera finzione, e come tale a maggior ragione incapace di commettere illeciti, si è faticosamente imposta anche nell’ambito penalistico la concezione organica, che ha messo in crisi la stessa tenuta logica del brocardo societas delinquere non potest. In tale ottica la persona giuridica cessa infatti di essere una mera astrazione, ma diviene una realtà, il cui riconoscimento da parte dello Stato assume mero valore dichiarativo. La persona giuridica, in tale ottica, si esprime ed agisce attraverso i propri rappresentanti persone fisiche, nell’ambito di un rapporto di immedesimazione organica e non già di alterità. Ed è proprio il riconoscimento dell’immedesimazione dell’ente nell’organo che consente di ritenere il fatto illecito del rappresentante come proprio della persona giuridica, residuando al più il problema di selezionare i criteri di imputazione dello stesso fatto più congrui rispetto alle effettive finalità punitive. In forza, dunque, della teoria organicistica, che riconosce soggettività reale e non finzionistica all’ente collettivo in virtù di un rapporto di rappresentanza organica tra l’ente stesso e le persone fisiche che ne determinano la volontà e l’azione, è possibile rendere compatibile la responsabilità della persona giuridica con il carattere personale della responsabilità penale ex art. 27 Cost.


Ratio giustificatrice

L’obiettivo dichiarato e perseguito dal legislatore è indubbiamente quello di apprestare un presidio forte contro la tentazione di commettere reati nell’ambito della

politica d’impresa e che siano frutto di questa politica. Si è dunque costruita la disciplina in esame avendo come punto di riferimento l’azienda normale che delinque e che deve essere riportata alla legalità.


Natura giuridica

La responsabilità dell’ente è configurata nella disciplina del d.lgs 231/2001 come una responsabilità diretta e autonoma, in quanto prescinde dalla punibilità in concreto della persona fisica autrice del reato presupposto. Tale responsabilità non è sussidiaria né alternativa a quella della persona fisica. Può eventualmente concorrere con quella dell’autore.

La natura giuridica della responsabilità in questione è controversa. Una parte della dottrina ritiene che si tratti di una responsabilità amministrativa, in quanto così definita nello stesso decreto legislativo. Inoltre, a favore di questa tesi si richiama il regime della prescrizione, che risulta del tutto svincolato da quello penalistico, e il trattamento sanzionatorio nel caso di vicende modificative dell’ente, agganciato alla disciplina civilistica relativa alla traslazione delle obbligazioni della società, oggetto o soggetto della modificazione.

Nonostante la qualificazione formale della responsabilità come amministrativa, secondo la dottrina maggioritaria l’analisi delle modalità di accertamento dell’illecito amministrativo e la struttura dello stesso, rivelano indici inconfutabili di uno stretto parallelismo con la disciplina del reato.

In primo luogo si consideri la scelta dell’utilizzo dello strumento del processo penale: l’accertamento della responsabilità e l’applicazione delle sanzioni sono affidati al giudice penale competente a conoscere il reato presupposto. Le regole del procedimento sono quelle del codice di procedura penale, in quanto compatibili e l’ente è equiparato all’imputato.

Anche la Corte di cassazione, chiamata a pronunciarsi sul tema, ha statuito che, ad onta del nomen iuris, la nuova responsabilità, nominalmente amministrativa, dissimula la sua natura sostanzialmente penale.
Va precisato che una parte minoritaria della dottrina fa rientrare la responsabilità in analisi nell’ambito di un tertium genus. Con tale terminologia si intende esprimere il non incasellamento dell’istituto negli schemi del diritto né penale, né amministrativo.


Struttura e disciplina giuridica

Precisata la natura giuridica della responsabilità dell’ente, è opportuno tracciare un quadro sintetico delle caratteristiche fondamentali e dei presupposti applicativi essenziali dell’istituto, secondo la disciplina delineata dal decreto legislativo di attuazione della legge delega.

La responsabilità del soggetto collettivo è configurabile in presenza di requisiti oggettivi e soggettivi.
Dal punto di vista oggettivo, si richiede la presenza di un reato che sia stato commesso nell’interesse o a vantaggio dell’ente. Le nozioni di interesse e vantaggio risultano particolarmente dibattute. Vi è chi distingue le stesse, evidenziando, sulla scorta della Relazione esplicativa del decreto, che la prima sarebbe riferibile alla sfera volitiva della persona fisica che agisce, così che il nesso di ascrizione oggettivo verrebbe escluso quando, all’esito di una valutazione ex ante, risulti che il soggetto abbia agito nel suo esclusivo interesse personale. Il vantaggio, per contro, avrebbe una dimensione oggettiva, destinata ad operare ex post: anche in assenza di un fine in favore della società, quest’ultima risponde dell’illecito se ha comunque ritratto un vantaggio dal reato.

Secondo un altro orientamento, la locuzione “nell’interesse o a vantaggio” si risolverebbe in un’endiadi, così da profilare un criterio unitario, riconducibile a un

interesse dell’ente in senso oggettivo, non essendo possibile rimettere il collegamento del reato con l’ente alle soggettive intenzioni o rappresentazioni dell’agente.
Il reato deve essere commesso da una persona fisica avente i requisiti per impegnare la responsabilità dell’ente. A tal fine, l’art. 5 stabilisce che deve trattarsi di persona che rivesta una posizione apicale, di diritto, esercitando funzioni di rappresentanza, di amministrazione o direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale, o di fatto, esercitando funzioni di gestione e controllo dell’ente, oppure che sia sottoposta alla direzione o vigilanza di uno dei soggetti precedenti. L’ente è esente da responsabilità se la persona fisica ha agito nell’interesse esclusivo proprio o di terzi.

Dal punto di vista soggettivo, i criteri si differenziano a seconda che il reato sia stato posto in essere da un soggetto in posizione apicale o da un subordinato, data la diversa significatività dell’agire di tali soggetti rispetto all’ente.
L’art. 6 detta la disciplina relativa alla prima ipotesi e stabilisce che l’ente non risponde se prova che sono stati adottati ed efficacemente attuati, prima della commissione del reato, modelli di organizzazione e di gestione idonei a prevenire reati della stessa specie; che è stato affidato ad un organismo dell’ente, dotato di autonomi poteri di iniziativa e di controllo, il compito di vigilare sul funzionamento, l’osservanza e l’aggiornamento dei suddetti modelli; che gli autori materiali del reatolo hanno commesso eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione; infine, che non vi è stata omessa o insufficiente vigilanza da parte del sopradetto organismo di controllo.

La norma è costruita in termini di inversione dell’onere della prova a carico dell’ente, configurando una presunzione di colpevolezza non assoluta.
Alla luce dei principi del processo penale, si ritiene che anche il dubbio sul fatto impeditivo di cui all’art. 6 comporti l’assoluzione dell’ente. Difatti, ai sensi dell’art. 533 c.p.p., il quantum di prova a carico dell’imputato è più leggero rispetto a quello a carico della pubblica accusa.

Qualora, invece, il reato sia stato posto in essere da un soggetto in posizione subordinata, si ha responsabilità dell’ente nel caso in cui la commissione del reato derivi dall’inosservanza degli obblighi di direzione o di vigilanza, cioè da un deficit di controllo, da parte dei soggetti a ciò preposti. Anche in questo caso l’adozione ed efficace attuazione dei modelli organizzativi e gestionali permette all’ente di andare esente da responsabilità, ma non si prevede alcuna presunzione di colpevolezza.


I reati colposi presupposto

I reati che sono in grado di fare scaturire la responsabilità del soggetto collettivo sono tassativamente indicati dal decreto negli articoli 24 e seguenti. A causa di numerosi interventi legislativi, il catalogo dei reati presupposto è molto più ampio di quanto fosse in origine.

Come è noto, la disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, prevista dal D.Lgs. 8 giugno 2001, n. 231, si riferiva inizialmente ad una serie limitata di delitti dolosi: quelli di indebita percezione di erogazioni, truffa o frode informatica in danno dello Stato o di un ente pubblico o per il conseguimento di erogazioni pubbliche, concussione e corruzione.

Tale catalogo è stato successivamente ampliato da diversi interventi legislativi ad una serie nutrita di delitti dolosi e ad alcuni reati societari contravvenzionali, comunque necessariamente dolosi e ad un’unica categoria di delitti colposi: quelli di omicidio e lesioni gravi o gravissime commesse con violazione delle norme sulla tutela della salute e sicurezza sul lavoro, in base all’art. 25 septies, introdotto dall’art. 9, primo comma, legge 3 agosto 2007, n. 123, e successivamente modificato dall’art. 300 del testo unico sulla sicurezza sul lavoro.

Con l’inserimento nella parte speciale del d.lgs. 231 dell’art. 25 septies, si è posto fin da subito il problema dell’adattabilità alle suddette figure di reato del criterio di imputazione di responsabilità oggettivo. Occorre procedere ad una valutazione della

applicabilità dei due criteri di imputazione oggettiva, quali l’interesse e il vantaggio, al modello di illecito colposo e, in particolare, al modello di delitto colposo di evento rappresentato dai delitti in materia di sicurezza sul lavoro. Si tratta di stabilire in che modo un illecito penale non voluto dall’autore si possa dire commesso nell’interesse di un altro soggetto. I reati disciplinati dagli artt. 589 e 590 c.p. sono infatti delitti colposi di evento, e quindi, per definizione, reati nei quali l’evento non è voluto dall’ agente. E’ necessario quindi chiarire quali siano le diverse interpretazioni fornite in questi primi anni in merito ad essi dalla giurisprudenza.

In effetti, entrambi i requisiti dell’interesse e del vantaggio sono stati calibrati sul modello di illecito doloso e, per questo motivo, risultano problematicamente adattabili al modello di illecito colposo d’evento, quale è quello che caratterizza i delitti di cui all’art. 25 septies d.lgs. n. 231/2001 in materia di sicurezza sul lavoro. Tuttavia, nonostante le apparenze, non si devono trarre delle conclusioni affrettate e ritenere tout court incompatibili i criteri dell’interesse e del vantaggio con i reati aventi natura colposa; al contrario, si rende invece necessario operare a tale riguardo un opportuno e preliminare distinguo all’interno del genus dei reati colposi, discernendo accuratamente le due ben diverse species in cui esso si articola, quella dei reati di pura condotta e quella dei reati di evento, alla quale per l’appunto appartengono le nuove fattispecie introdotte nel catalogo dei reati del d.lgs. n. 231/2001 dalla recente riforma in materia di sicurezza sul lavoro.

La prima species, quella dei reati colposi di mera condotta, vale a dire quella composta da illeciti penali consistenti nella mera violazione di una regola cautelare dettata per il sicuro svolgimento di un’attività rischiosa, a prescindere dalla produzione di un evento materiale di danno nei confronti del bene giuridico, appare, in linea teorica, perfettamente compatibile con entrambi i criteri di imputazionedescritti dall’art. 5 comma 1, d.lgs. n. 231/2001, dal momento che è facilmente dimostrabile che la violazione della norma di diligenza penalmente sanzionata sia stata realizzata dall’autore materiale, sia esso dirigente, preposto, lavoratore dipendente ecc., nell’interesse o nel vantaggio dell’ente. Un esempio più di ogni altra

cosa può aiutare a dimostrare la fondatezza di questa affermazione: si pensi per tutti al caso di un dirigente di una s.r.l. attiva nel campo dell’edilizia abitativa, il quale decida di non dotare i propri dipendenti di ponteggi a norma di legge, né di strumentazioni adeguate allo svolgimento in sicurezza delle mansioni pericolose allo scopo precipuo di contenere i costi e di ottimizzare così il profitto della società e, dunque, di far ottenere a quest’ultima un vantaggio economico. Bene è di intuitiva evidenza che in un caso del genere il reato colposo di mera condotta, consistente nella mancata dotazione dei lavoratori degli strumenti di protezione per l’espletamento delle loro mansioni, realizzato dal dirigente sia stato commesso nel convergente interesse ex ante della società e, soprattutto, nel suo vantaggio economico ex post. Ben diverso è, invece, il discorso per quel che concerne la seconda species, quella dei delitti colposi di evento e, dunque, le due fattispecie in esame, quelle dell’omicidio colposo e delle lesioni personali aggravate colpose verificatisi in violazione della normativa in materia di sicurezza sul lavoro.

È di tutta evidenza come in questa ipotesi risulti arduo dimostrare in sede processuale che la morte colposa o la lesione colposa aggravata del lavoratore sia stata realizzata dal dirigente, preposto ecc. tanto nel convergente interesse ex ante della persona giuridica, quanto nel suo vantaggio economico ex post.

Attenendosi alla lettera della legge sarebbe invero estremamente ostico ascrivere tali reati alla società al cui interno si è verificato l’incidente, essendo impossibile dimostrare processualmente, oltre ogni ragionevole dubbio, che la morte di un lavoratore sia stata realizzata nel suo interesse o vantaggio. Al contrario, un evento del genere finisce con il cagionarle prevalentemente danni cospicui sia sul pianopatrimoniale che su quello dell’immagine, primi tra tutti, il risarcimento dei danni o l’aumento dei premi assicurativi.

Posta tale difficoltà interpretativa della norma, negli ultimi anni la giurisprudenza di merito ha proceduto ad un’elaborazione dei criteri di imputazione dei reati colposi di evento agli enti collettivi.

La giurisprudenza, sin dalle primissime pronunce di merito, ha cercato di risolvere il problema, facendo leva soprattutto sul secondo criterio oggettivo di imputazione, cioè il vantaggio, ed asserendo che l’ente risponde per i delitti colposi di cui agli artt. 589 e 590 c.p. quando l’omissione delle regole cautelari in materia di sicurezza da cui siano scaturiti abbia determinato un oggettivo vantaggio patrimoniale per lo stesso, consistente nel risparmio o nel contenimento delle spese sostenute in materia di sicurezza.

In quest’ottica, allora, si dovrebbe imputare il reato all’ente verificando più semplicemente il vantaggio economico indiretto, costituito dal risparmio dei costi non sostenuti, che la società ha tratto dalla mancata adozione delle onerose misure di sicurezza richieste dalla legge per la prevenzione di infortuni sul lavoro, come la consulenza per la stesura di un efficace documento valutazione dei rischi; la messa in sicurezza del di lavoro e dotazione ai lavoratori di indumenti idonei al sicuro svolgimento delle proprie mansioni; la formazione professionale degli stessi ecc. Occorre precisare che una parte della dottrina fonda la soluzione interpretativa sulla distinzione tra colpa cosciente e colpa incosciente. In tal senso, si prospetta la possibilità di individuare un profilo di colpa cosciente della persona fisica titolare di poteri di gestione dell’impresa per cui il soggetto in questione, pur prospettandosi l’eventualità che si possano verificare degli infortuni, esclude che in concreto possa accadere l’evento e con tale atteggiamento mentale non adotta le cautele previste dalla legge in vista di un vantaggio economico per l’azienda.

Alla luce di quanto sinora detto, l’alternativa preferibile per dirimere tali dubbi interpretativi nonché per appianare quelli relativi alla irragionevolezza di una equiparazione normativa dei criteri di imputazione per i reati dolosi e colposi, sembrerebbe essere quella di un intervento diretto ed esplicito da parte del legislatore

Post Author: Avv. Daniele Quaranta

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